Dall’Italia a Cambridge, passando per Edimburgo, il Belgio e Aquisgrana. La storia di una scienziata italiana che ha fatto dei numeri la sua passione e della fisica un’”arte semplice”
Paola Capoferro
Responsabile Editoriale
«Secondo me non c’è carriera più bella di quella che si può intraprendere in ambito STEM. È affascinante: c’è sempre un nuovo ‘problema’ da capire e risolvere. Quando si trova, poi, la soluzione è un momento di soddisfazione pura. E la cosa incredibile è che questa dinamica si ripete continuamente nel tempo, c’è sempre qualcosa di nuovo da studiare e da interpretare».
È così che Maria Ubiali – fisica, ricercatrice e University Lecturer presso il ‘Department of Applied Mathematics and Theoretical Physics’ dell’Università di Cambridge – ha esordito quando abbiamo cominciato questa intervista.
“Adesso mettete gli stivali perché cammineremo un po’ nel fango ma in questo fango troveremo delle pepite d’oro, e questo vuol dire che vale la pena di fare ogni singolo passo”: ecco quello che dice Maria ai suoi studenti all’inizio della prima lezione del suo corso.
«Credo che le pepite d’oro che trovi in un percorso STEM siano uniche. La matematica non è semplice e non si può far finta di cambiare la natura delle cose. Le discipline STEM insegnano che c’è una continua sfida, ma è questa la parte bella: ti fanno sentire sempre in movimento e tu continui a muoverti insieme all’universo».
Il percorso di Maria Ubiali è fatto di incontri e passione
Milano, Genova, Edimburgo, Aquisgrana, Louvain-la-Neuve (Belgio), Cambridge. Maria nella sua carriera ha girato l’Europa, passando da un progetto di ricerca all’altro.
Durante l’intervista le ho chiesto che cosa l’ha portata a intraprendere un percorso STEM e lei mi ha parlato di un’illuminazione.
«Quando mi sono iscritta al liceo scientifico Frisi di Monza la mia idea era diventare un medico, da grande. In quarta superiore facevo la babysitter a due bambini, figli di due fisici. Ogni volta che il padre mi accompagnava a casa in macchina mi spiegava alcuni fenomeni della fisica attraverso dei semplici esempi, partendo magari da un arcobaleno che si rifletteva in una pozzanghera. Mi incantava l’idea di guardare queste cose e stupirmi. Un giorno mi ha detto una frase che ha fatto scattare la scintilla: “Il fisico è un artista che non sa disegnare”. L’idea che la fisica potesse in qualche modo descrivere la realtà in un modo artistico, con un linguaggio unico, mi ha rapita. E la scintilla è diventata fuoco quando una ricercatrice è venuta a parlare del lancio del neutrino tra il CERN e il Gran Sasso, quando ero in quinta superiore. Mi sembrava di aver visto in lei quello che il padre dei bambini intendeva, perché il modo con cui spiegava la fisica era affascinante e io potevo quasi dipingere nella mente quello che diceva. Con altri due compagni siamo andati a chiederle cosa significasse fare il fisico e lei ci ha portato in dipartimento in Statale a Milano, ci ha presentato i suoi colleghi e ha chiesto loro di raccontarci le motivazioni che li avevano spinti a fare fisica. Tutti, nelle loro risposte più disparate, inserivano la parola “bello” associata a quello che facevano e gli brillavano ancora gli occhi nonostante avessero già alle spalle diversi anni di lavoro. È stato in quel momento che ho deciso definitivamente che quello sarebbe stato il mio futuro».
Maria si è così iscritta alla facoltà di fisica della Statale di Milano («l’aspetto matematico mi piaceva tantissimo, era emozionante vedere che fenomeni molto diversi tra loro potevano essere descritti da un’equazione, anche la complessità a suo modo poteva diventare semplice»), ha fatto la tesi a Genova, complice un incontro fortuito con un professore che le ha traferito la passione e il metodo per fare ricerca nell’ambito della fisica teorica («è un po’ quello che succedeva in passato ai pittori, io ho trovato un maestro che mi ha insegnato a dipingere»), e il dottorato di fisica teorica.
Dottorato che ha conseguito nel 2010 a Edimburgo, dove si è traferita nonostante non sapesse l’inglese (che ha imparato sul campo). «Durante l’esperienza a Edimburgo ho conosciuto persone che provenivano da tutto il mondo, e ho valorizzato quello che avevo imparato in Italia. Ho avuto un’apertura verso un mondo ancora più stimolante. Lì ho seguito il mio primo progetto basato sul machine learning. L’obiettivo era usare una parametrizzazione con le reti neurali per capire la struttura del protone: abbiamo osato, ma è stata proprio la natura straordinaria della mia ricerca che mi ha aiutata a trovare un post dottorato presso la Rheinisch-Westfälische Technische Hochschule Aachen di Aquisgrana (dove è arrivata dopo una parentesi in Belgio presso l’Louvain-la-Neuve)».
Ma Maria non si è fermata in Germania e a seguire ha mandato un’application a Cambridge.
«Quest’ultima tappa del mio percorso ha un po’ a che fare con il concetto di ‘destino’. Sono stata scelta tra 200 persone anche perché a valutare la mia candidatura c’era il mio esaminatore esterno di tesi di dottorato, che si è ricordato di me e di quanto fossi stata determinata durante l’interrogazione che era durata sei ore ed era stata difficilissima: ha pensato che mi meritassi una chance perché mi considerava davvero ‘resilient’. Allora non avevo mollato, e in qualche modo sono ripagata due volte di quella fatica».
Così dopo un anno di post dottorato, tre anni di contratto, una borsa di studio Royal Society che le ha permesso di inaugurare un progetto di ricerca con un suo gruppo di ricerca come Principal Investigator, adesso Maria Ubiali è professoressa ordinaria di matematica e responsabile accademica per le studentesse di matematica: «Adesso seguo il progresso accademico delle ragazze che fanno matematica nel mio college, conciliando la ricerca (nel frattempo ha vinto una borsa di studio europea con cui ha creato un gruppo di lavoro di 8 persone, ndr), l’insegnamento e l’aspetto anche pastorale di accompagnare accademicamente queste ragazze».
Carriera nel mondo STEM: è tempo di sganciarsi dagli stereotipi
Essere donna e lavorare nel mondo STEM è tutt’altro che facile. «Il mio settore è per lo più in mano agli uomini: è un dato di fatto. E questo ha contribuito ad alimentare gli stereotipi. Tuttora, nel mio gruppo di high energy physics and general relativity, io sono l’unica donna su 18 docenti universitari. Ma questo non vuol dire che le cose non possano cambiare: è quello che dico sempre alle mie colleghe. E lo dico anche alle mie studentesse: è sbagliato pensare di non essere in grado di fare delle cose solo perché finora a cimentarsi sono stati gli uomini. Non c’è nessun motivo oggettivo per cui le donne non possano eccellere quanto gli uomini in area STEM, anzi. Anche io, lo confesso, ho vissuto dei momenti in cui ho pensato che non avevo le carte per competere con i miei colleghi uomini, banalmente perché sono mamma di tre figli. Ho rischiato di farmi condizionare dal pensiero che esista solo un modo di fare carriera, ma per fortuna ho deciso di continuare a mettermi in gioco, così come so fare io, con un modo di lavorare curioso, collaborativo e umile. È stato allora che ho scoperto che il mio modo di lavorare è molto efficiente: riesco a fare ricerca di alto livello, a ottenere borse di studio, a gestire un gruppo di ricerca, a insegnare comunicando una passione. Ci ho creduto e ci sono riuscita».