Identikit del Professore Universitario: quando convivono ispirazione e concretezza

Chi meglio potrebbe raccontare una professione se non chi da anni la svolge tutti i giorni, con impegno, passione e costanza? Ecco perché abbiamo chiesto a Luca Gastaldi, Docente del Politecnico di Milano di spiegarci come diventare un Professore Universitario

Pubblicato il 17 Mar 2023

Paola Capoferro

Responsabile Editoriale

Vignetta di Lorenza Luzzati

Per la rubrica “Identikit Professioni” vi presentiamo il Professore Universitario!

Insegnare agli altri vuol dire continuare a mettersi in gioco, usare costantemente lo spirito critico e la capacità di pensare. Ecco cosa mi piace dell’essere professore all’Università.

È da qui che è partito il racconto di Luca Gastaldi, Professore Associato del Politecnico di Milano, che segue due corsi: “Impresa e Decisioni Strategiche” e “Laboratorio di Analisi e Modellizzazione dei Processi”.

Percorso di studi per diventare un Professore Universitario

Con lui abbiamo cercato di capire come si diventa e cosa fa oggi un Professore Universitario.

Che cosa hai studiato?

Contrariamente a molti ragazzi che ponderano a lungo, io ho scelto l’università un po’ a caso. Mi sarebbe piaciuto studiare medicina, ma avrebbe richiesto troppi anni e così sono approdato alla facoltà di ingegneria gestionale di Cremona, che mi consentiva di stare più vicino a casa.

C’era comunque qualcosa che mi affascinava: la possibilità di utilizzare dei modelli matematici e imparare le metodologie che consentono di semplificare e cambiare in meglio la realtà in cui vivevo, e soprattutto che tutto questo non avesse a che fare non solo con il codice (la programmazione, per intenderci) ma anche con le persone e le loro peculiarità.

A Cremona ho seguito il corso di economia e organizzazione aziendale con Mariano Corso che è il mio attuale capo ed è stato colui che mi ha dato l’imprinting. L’esame era andato molto bene ma la materia mi aveva quasi fatto desistere dal proseguire il percorso. Adesso la insegno, per capire come bisogna darsi un po’ di tempo per prendere decisioni sul proprio futuro. Non ero semplicemente pronto.

Dopo il triennio, ho fatto la specialistica a Milano e, prima di laurearmi, ho fatto uno stage in Next Media Lab, una realtà futuristica e piena di ragazzi giovani e divertenti. È lì che è nato il mio amore per le tecnologie digitali.

Come sei arrivato alla decisione di diventare un Professore Universitario?

Finita l’università come molti ragazzi volevo diventare un super manager della grande società di consulenza che cambia il mondo. Ho resistito in una delle big five solo un anno e mezzo. Ricordo quel periodo come uno dei più duri della mia vita: avevo la sensazione di essere un soldatino che si limita solo ad eseguire ordini e risolvere problemi.

Quel ruolo mi stava stretto e il caso ha voluto che venissi contattato dal docente che mi aveva seguito durante la tesi della triennale a Cremona, che mi ha proposto di intraprendere il percorso di dottorato e di entrare anche nel gruppo di lavoro degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano.

Ammetto che è stato un salto nel buio, ho deciso di mettermi in gioco, di rinunciare a uno stipendio abbastanza buono, di aprire la partita IVA e cominciare un percorso di dottorato di ricerca che non sapevo neanche bene cosa fosse, e seguire così la carriera accademica, che mi attirava molto per mie attitudini personali.

Ci parli del tuo dottorato?

Non nascondo che sono stati anche in questo caso tre anni molto duri: seguire in parallelo il dottorato e il lavoro presso un centro di ricerca applicata in cui lavoravo è stato molto sfidante e arricchente.

A un tratto ho capito che non dovevo correre i 100 m, ma una maratona, e che ero sul percorso giusto. Il mio.

Quello che ho fatto nella mia vita e i risultati che ho ottenuto sono arrivati perché ho cercato di trovare un’armonia tra entrambe le aree, la teoria e la pratica, sviluppando un linguaggio e un modo di pensare coerenti e facili da comprendere in tutti e due i mondi (che non si parlano e hanno quasi valori agli antipodi.

In uno contano le idee, la capacità dialettica e la logica. Nell’altro la concretezza e la capacità di risolvere problemi delle aziende. E poi hanno linguaggi e modi di approcciarsi molto diversi: riflessione contro tempestività, curiosità contro pragmatismo.

Che cosa fa un professore universitario?

Finito il dottorato, dopo una breve parentesi di ricerca in Scandinavia, a settembre 2008 ho cominciato la carriera accademica al Politecnico di Milano, che, per essere chiari, non prevede solo l’insegnamento, ma anche la ricerca, la stesura di articoli scientifici, la ricerca di fondi e il coordinamento di ragazzi e ragazze che lavorano con me su tutti questi fronti.

Sul fronte della didattica, di solito il primo passaggio obbligato, mentre si fa il dottorato, è quello dell’esercitatore che supporta il lavoro del professore ordinario e che segue gli studenti durante le sessioni pratiche dei corsi. Chiaramente è toccato anche a me. Poi, progressivamente, ho cominciato a coordinare operativamente il corso, a fare gli esami orali e a occuparmi anche delle valutazioni.

Quando poi ho fatto il concorso pubblico per diventare un ricercatore a tempo determinato ho preso la titolarità di un corso. Oggi seguo 11 dottorandi e oltre al corso di Impresa e Decisioni Strategiche a Cremona, ho la responsabilità anche del Laboratorio di Analisi e Modellizzazione dei Processi a Milano. Insegno anche in altri corsi, in cui però faccio poche lezioni.

Gli strumenti del Professore Universitario

Quali tool si usano a lezione?

Quando ho cominciato usavo solo le slide di PowerPoint. Inoltre, per alcune esercitazioni avevo a disposizione una lavagna luminosa che inquadrava e proiettava quello che scrivevo su dei fogli. Mi sembra di parlare della preistoria…

Adesso, al Politecnico, abbiamo una dotazione tecnologica molto più sofisticata. Ogni aula ha un microfono ambientale e una telecamera che segue il docente mentre fa lezione. Questo sistema consente di partecipare alle lezioni in remoto per chi non riesce a venire in aula.

E poi oggi posso usare l’iPad per mostrare in tempo reale ai ragazzi i miei appunti, prenderli insieme a loro durante alcuni passaggi più ostici delle lezioni, risolvere esercizi insieme e rispondere alle domande degli studenti che sono collegati da casa e mi scrivono in chat.

Inoltre, facciamo sondaggi rapidi e anonimi oltre a tag cloud costruite collegialmente, per coinvolgere gli studenti. Usiamo anche spezzoni di film, soprattutto nei corsi in cui si parla di soft skill. Dobbiamo prestare uguale attenzione a contenuti e modalità con cui veicolarli.

Come si è reinventata la didattica durante la pandemia

Dal periodo pandemico in poi usiamo anche delle lavagne condivise digitali (come Mural, Miro, Google Jamboard) dove gli studenti lavorano in gruppo su task condivisi, fanno brainstorming, attaccano post-it digitali, simulano comportamenti, ecc.

Usiamo anche delle break-out rooms, dove dividiamo in tempo reale i ragazzi in gruppetti e li facciamo lavorare insieme su micro-task volti ad aumentare il loro coinvolgimento durante la lezione.

Questo anche per farli abituare a lavorare in team, considerando che i corsi prevedono sempre un’attività progettuale da sviluppare in gruppo e che, quando cominceranno a lavorare, lavorare in team sarà la norma.

C’è poi molta attività laboratoriale. nel mio Laboratorio per l’Analisi e la Modellizzazione dei Processi, ad esempio, non è previsto un esame scritto, ma un progetto di analisi di un processo vero e proprio, che dura tutto il semestre e che determina il voto dell’intero corso.

Innovazione, innovazione e ancora innovazione

Ammetto che, complice il Covid, negli ultimi anni la didattica è cambiata tanto. Adesso al Polimi un gruppo di docenti si occupa di innovazione della didattica e di condividere le buone pratiche, gli strumenti e gli approcci più efficaci sperimentati dai vari docenti. E poi ci sono alcuni colleghi particolarmente bravi nella didattica che condividono in seminari ad hoc le loro best practice e i loro “trucchetti”.

Non nascondo che da un lato questo nuovo modo di lavorare richiede molto più sforzo e che tanti professori fanno fatica a sperimentare. Un tempo il docente andava in aula e parlava seduto dietro una cattedra. Io ero già “strano” perché mi muovevo nell’area, usavo la spazialità dell’aula per ingaggiare gli studenti.

Adesso è necessario conoscere alcune tecnologie digitali e avere degli approcci metodologici didattici più sofisticati – senza dimenticare l’importanza di dare tutte le volte un po’ di stimoli per alzare l’asticella e non annoiarsi o, peggio, annoiare.

Qual è il bello di essere un Professore Universitario?

Io faccio il lavoro migliore al mondo… Scherzi a parte. Sono diverse le cose che mi piacciono del mio lavoro. Ogni lezione mi dà una carica di energia e in qualche modo un senso a quello che faccio.

È stimolante aiutare i ragazzi a non aver paura della realtà in cui si muovono e dare loro gli strumenti per prendere decisioni il più possibile con la testa piuttosto che con la pancia. E poi è davvero bello quando chiedono approfondimenti alla fine delle lezioni, quando rispondono e partecipano.

È una delle cose che, professionalmente, mi dà più soddisfazione. Vedere che hai seminato in giovani ragazzi la voglia di approfondire le cose. La voglia di imparare. Alla fin fine il mio mestiere è questo: far vedere che il “banco” della conoscenza è bello e interessante, convincendo i ragazzi a fare lo sforzo di avvicinarsi e “mangiare”.

Quanto è importante trovare il modo di coinvolgere gli studenti?

Non è facile come la racconto. Dietro ogni lezione c’è un grande lavoro preparatorio. Una delle cose più importanti che oggi deve fare un docente è tenere sempre aggiornato il materiale didattico.

Io mi impongo di usare sempre casi contemporanei e ai ragazzi del primo anno faccio sempre studiare un’azienda vera, il suo bilancio e la sua strategia.

Comincio ogni mia lezione con le notizie del giorno o della settimana e faccio vedere che quello di cui ci occuperemo aiuterà a leggere meglio quello che sta succedendo nella realtà. Questo perché la realtà è molto più interessante dalla fantasia, quindi non bisogna inventarsi niente.

Bisogna solo avere tanta capacità di osservazione e di applicare modelli per interpretare quello che succede attorno a noi.

Tutto questo porta sempre un po’ di farfalle nello stomaco, sia a me sia agli studenti. Perché? Perché ti spinge a cercare quelle connessioni che rendono il corso contemporaneo e vivo, per fare in modo che i ragazzi partecipino attivamente. Richiede un piccolo sforzo a tutti ma la mia esperienza mi dice che ne vale la pena.

Come si diventa una guida per i ragazzi?

Ogni Professore ha il suo stile. E una delle cose che ho imparato avendo avuto migliaia di studenti e diversi dottorandi da seguire è che non si può chiedere loro di adeguarsi al tuo stile, devi farlo tu. C’è chi vuole essere più seguito, guidato e indirizzato e chi invece preferisce svolgere il lavoro più in autonomia.

Molte volte i ragazzi hanno bisogno solo di qualcuno con cui riflettere. Le risposte le hanno già ma hanno bisogno di essere aiutati a tirarle fuori. Questa rientra tra le cose più incredibili del mio lavoro: ti ringraziano tantissimo per delle cose che hanno fatto loro! Tu gli hai semplicemente dato una mano a farlo.

Comunque, in generale il mio obiettivo è insegnare ad apprendere. Fare ricerca richiede di uscire dalla propria zona di comfort, fare i patti con le farfalle nello stomaco ed arrivare ad apprezzarle.

Fare ricerca, come insegnare, è come mettersi in una stanza buia dove non hai nessun riferimento e dove devi trovare un modo di muoverti per non andare contro un muro e per cercare una via d’uscita. All’inizio fa paura. Poi diventa divertente perché non ti annoi mai.

Il grosso del lavoro che faccio è di aiutare i ragazzi a muoversi nelle loro “stanze buie”, fare i primi passi, superando la paura di rimanere paralizzati e l’inerzia del non fare niente e stare fermi. Il mio lavoro è quello di ascoltarli e di provare a mettere a disposizione la mia esperienza per decidersi a muovere un passo dopo l’altro. Fino a quando diventano autonomi e non hanno più bisogno di me.

Che tipo di guida hai avuto tu?

Chi mi ha guidato mi ha insegnato l’importanza di sapermela cavare da solo, organizzandomi e gestendo i miei tempi in autonomia. Il mio mentore mi ha permesso di diventare velocemente un professionista, offrendomi tante opportunità per crescere e consolidare le mie competenze. Lui c’era quando serviva veramente e, guardando oggi al passato, ho capito che anche quando non c’era ha fatto esattamente ciò che andava fatto.

È stato un mentore molto più sofisticato e bravo di quello che posso essere io, che – quasi in modo egoistico – cerco di dimostrare costantemente la mia presenza, anche quando magari non è necessaria. Guidare le persone è difficile e bellissimo. E l’unico modo per imparare a farlo bene è provare a farlo ogni giorno al meglio delle proprie possibilità. Come muoversi con serenità in una stanza buia. Come fare ricerca. Come insegnare.

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Paola Capoferro
Paola Capoferro
Responsabile Editoriale

Redattore di Digital4Executive - sin dal primo vagito della testata - scrivo di Digital Transformation e sono particolarmente legata ai temi che riguardano le persone in azienda. Dal 2021 ho preso le redini del portale University2Business, che mi dà quotidianamente la possibilità di entrare in contatto con i trend, le esigenze e le aspirazioni delle nuove generazioni e raccontarli. Ingegnere gestionale, appassionata di numeri, sono stata travolta dal fascino della parola e della scrittura.

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