Il rapporto tra scuola e impresa è ormai un tema obbligato nella discussione pubblica di ogni paese sviluppato. Le ragioni sono diverse: è innanzitutto un argomento trasversale che riguarda, in maniera più o meno diretta, tutta la cittadinanza; è inoltre da sempre un campo di battaglia politico durante le fasi elettorali. Ma è anche un ottimo terreno di test per valutare l’efficienza e il livello di modernizzazione di uno Stato, ed è da qui – e dai dati pertinenti – che conviene partire per osservare al meglio il fenomeno.
Dalla discussione pubblica, specie in Italia, emerge spesso il tema della distanza tra i due mondi, lamentato – è importante sottolinearlo – su entrambi i fronti. Le imprese vorrebbero un percorso di studi più interattivo col mondo del lavoro (con un incremento degli stage o di interventi formativi più mirati all’acquisizione di competenze specifiche) e un orientamento agli studi più in linea con l’offerta del mercato del lavoro. Questo aspetto è sentito, d’altra parte, anche sul fronte Università, dove moltissimi giovani scelgono il proprio percorso di studi del tutto inconsapevoli dell’offerta che il mondo del lavoro potrà garantirgli. La mancanza di sincronizzazione tra Università e mondo del lavoro è dunque il primo tema fondamentale della questione, anche perché è quello che colpisce più direttamente e duramente i laureati. I numeri al riguardo sono emblematici.
Benché l’introduzione della laurea breve abbia comportato un incremento del numero di laureati al 17% della popolazione, il gap rispetto alla media OCSE (34%) rimane comunque ampio, il numero di laureati disoccupati continua a salire (7,1%), il numero di futuri iscritti ad un corso di laurea tende invece a diminuire (47% nel 2012, era il 51% solo nel 2008) e la retribuzione media rimane ancora troppo bassa (147 su 100 a fronte dei 159 su 100 dell’area OCSE). Il risultato è un aumento significativo dei cosiddetti NEET (dall’Inglese “Neither employed nor in education or training”), ovvero di coloro che non hanno un impiego lavorativo e non sono iscritti a nessun percorso di studi, oppure della famigerata “fuga di cervelli” verso mete più appetibili o accoglienti. Non solo; uno degli aspetti più significativi di questa lontananza tra Università e impresa è la “coerenza studi-lavoro”, in miglioramento secondo gli ultimi indici di ricerca, ma ancora insoddisfacente per una grande fetta dei neolaureati, i quali devono aspettare alcuni anni prima di trovare occupazione nella propria area di studio.
Occorre mostrare, però, che gli aspetti quantitativi sono solo alcuni, ancorché i più sentiti, di questa assenza di comunicazione. Senz’altro vi sono aspetti qualitativi più nascosti e di difficile rilevamento, ma che nel lungo termine possono segnare il tasso di modernizzazione di uno Stato. Uno di questi è il trasferimento delle conoscenze dal mondo della ricerca accademica a quello dell’impresa, fattore cardine del processo di tecnologizzazione di un paese. L’Italia, da questo punto di vista, parte svantaggiata rispetto a gran parte dei paesi concorrenti, avendo un tessuto imrenditoriale composto in gran parte da PMI e microimpresa, entrambe realtà che faticano o talvolta sono impossibilitate a svolgere ricerca in proprio. In molti sostengono che se gli atenei riuscissero a farsi carico di questa incombenza, il ritorno sarebbe attivo su entrambi i fronti. Un altro fronte di dibattito è se la ricaduta occupazionale (o l’utilità sociale del corso di studi) sia l’aspetto preponderante a cui il “sistema istruzione” debba mirare. Chi risponde affermativamente arriva a sostenere che facoltà come quelle umanistico-letterarie siano inutili o addirittura dannose, se non altro in termini di ricchezza per coloro che le scelgono, e che andrebbero evitate (o persino soppresse). È di questa opinione Stefano Feltri, ad esempio, giovane economista italiano e vicedirettore di una nota testata giornalistica. Naturalmente, chi sostiene la tesi inversa non lo fa con esclusivo riferimento alle statistiche d’impiego, ma nell’ottica della più ampia e complessa missione di alfabetizzazione culturale verso la popolazione e nel rispetto di una tradizione artistico-letteraria così gloriosa qual è quella italiana. Tuttavia, è interessante notare come anche i dati occupazionali in merito siano abbastanza incerti e controversi: da una parte non sembra esserci una sostanziale differenza in percentuale di occupati, dall’altra pare essere accertato il ritardo nel trovare un’occupazione coerente da parte dei laureati nelle così biasimate “lauree inutili”.
I problemi che gravitano intorno al difficile rapporto Università-lavoro sono numerosi, complessi e in continua evoluzione. Tuttavia, sebbene non vi siano studi scientifici definitivi e largamente accreditati, è opinione diffusa tra i ricercatori che gran parte di essi siano imputabili alla scarsa comunicazione e integrazione tra gli enti formativi e il mondo delle aziende (e del lavoro più in generale). Comunque, pur nella difficoltà della situazione, sarebbe falso sostenere che nulla si stia facendo per tentare di semplificare e ammodernare il passaggio dall’uno all’altro ambito. Peresempio, si sta provando a scardinare la monodirezionalità: lo scambio e l’integrazione deve essere vicendevole, come sostiene la Fondazione CRUI. Uno strumento che può risultare efficace – suggeriscono i rettori – è quello del dottorato industriale, un percorso di formazione e ricerca programmato congiuntamente da atenei e imprese. Anche da parte del mondo del lavoro vi è una crescente sensibilità e mobilitazione nel tastare direttamente dall’interno degli atenei il tasso di professionalizzazione e le qualità attitudinali dei giovani studenti, al fine anche di suggerire eventuali correttivi o potenziare maggiormente le virtù già presenti.
Il lavoro da fare per ottimizzare e rendere funzionale questo scambio è dunque ancora molto lungo, ma alcuni fattori emergenti lasciano intravedere speranze per un’inversione di tendenza, finora solamente auspicata. Probabilmente, politiche più coraggiose e intraprendenti in questo senso potrebbero portare a benefici su larga scala nel breve-medio termine.
Contributor: Simone Melis
Simone Melis è perito informatico, ha una laurea triennale in filosofia all’Università degli studi di Torino, ora sta conseguendo la laurea di secondo livello. Nel frattempo, ha frequentato corsi di diversi generi tra cui quelli di perfezionamento dell’inglese e quelli focalizzati su competenze digitali. Ha già maturato esperienza in ambito lavorativo e con diverse imprese.
– Simone ha partecipato alla nostra gara “Diventa giornalista 2.0” e il suo articolo è stato selezionato per la pubblicazione.