La circular economy dovrebbe creare in Europa fino a 2,8 milioni di posti di lavoro, 500 mila solo in Italia. Accenture l’ha definita come la più grande rivoluzione (e opportunità) nell’organizzazione dei processi produttivi e dei consumi dei prossimi 250 anni. Richiede un passaggio organizzativo e culturale non indifferente, ma i vantaggi a cui può condurre sono davvero notevoli, sia in termini di ambiente naturale, che di ambiente economico.
L’economia circolare, o circular economy, è un concetto di ecologia applicata all’industria e ai consumi molto diversa da quello lineare che è stato applicato fino a oggi, anche in ambito “green economy”, basato su “ideare, produrre, vendere e smaltire”.
Come la definizione suggerisce, la circular economy è un approccio circolare, in cui il principio base è che ciò che normalmente si getta nei rifiuti possa essere, in realtà, trasformato in qualcos’altro di utile. Che possa, insomma, anziché inquinare contribuire a creare ricchezza perché progettato per erogare il massimo valore aggiunto lungo tutte le fasi del suo ciclo vitale. Il ciclo è quindi circolare.
Già negli anni Settanta nelle università statunitensi si è cercato di capire come trasformare i rifiuti in qualcosa di utile secondo modalità che siano economicamente non solo sostenibili ma, addirittura, vantaggiose. Alcune teorie produttive di quell’epoca, quali lo “sviluppo rigenerativo” o “dalla culla alla culla”, sono andati a definire i principi di quella che oggi viene definita come “economia circolare”. Ma in tempi recenti, è stata sopratutto l’associazione Ellen MacArtur Foundation, nata nel 2010, che ha creato un vero e proprio impianto di principi e regole in grado di aiutare le organizzazioni nella transizione verso la circular economy. Anche l’Unione Europea sostiene l’economia circolare come il modello di sviluppo preferibile del XXI secolo, e ha istituito nel dicembre 2015 un pacchetto di misure, nell’ambito del programma Horizon 2020, chiamato “Industria 2020 ed economia circolare”, dedicato a supportarne la crescita e l’adozione da parte del più ampio numero di aziende private, pubbliche ed amministrazioni.
La concezione lineare tradizionale del ciclo di vita dei beni (ideare, produrre, vendere e smaltire) è ormai insostenibile, dato che si basa sul principio che sia possibile accedere con facilità a una grande quantità di risorse. Ma le fonti energetiche non rinnovabili, come il petrolio, inquinano e costano sempre più mentre quelle rinnovabili (eolico, fotovoltaico…) non sono ancora in grado di sostenere l’impiego nella produzione industriale di massa. Lavorare verso la massima efficienza – ovvero una riduzione delle risorse e dell’energia proveniente da fonti non rinnovabili consumata per ciascuna unità prodotta – è, ormai, una necessità.
C’è poi il tema degli sprechi: nella circular economy il rifiuto in quanto tale non esiste perché i materiali contenuti in un prodotto sono progettati nativamente per poter essere smontati, rimontati, riposizionati all’interno di nuovi prodotti, destinati a nuovi scopi.
Ne parla in modo molto chiaro questo articolo “Circular economy, quando il riuso crea business”, ma molto ben fatto è anche lo sldeshare qui di seguito.
Circular economy nel business
Ci sono già moltissime grandi aziende che hanno avviato il passaggio verso la circular economy, come CocaCola, Dell, H&M, Ikea, DHL, Levi Strauss, Timberland e Energizer, Cisco, Unilever, Google, Danone, Renault, Nike, Philips, IntesaSanpaolo.
Esiste anche un premio molto importante e significativo poichè offre visibilità alle società pioniere di questo nuovo modello industriale, “The circular economy awards” istituito da The Young Global Leaders Circular Economy Taskforce (nell’ambito del World Economic Forum Young Global Leaders) che lo scorso anno ha premiato Dell, la società statunitense che tutti conosciamo come produttore di hardware; mentre nel 2016 il premio (qui un video dei finalisti) è andato a Veolia, gruppo nato in Francia 160 fa occupandosi di portare acqua potabile nelle città e gestire rifiuti, con una sensibilità green ante litteram, che si è convertita più specificamente alla circular economy circa 3 anni fa.
Lavorare nella circular economy
L’economia circolare è spesso sintetizzata come un’economia rigenerativa e senza rifiuti by design. L’adozione dei suoi principi richiede uno sforzo notevole, quello di rivedere praticamente da zero interi processi industriali e riprogrammarli in un’ottica circolare di recupero totale. In un’articolo del blog olandese iamsterdam , dedicato ai progetti smart city della città, tra le più evolute e impegnate al mondo su questo fronte, si legge che la circular economy offrirà moltissime opportunità nei prossimi, imminenti anni agli studenti universitari, sia in ambito aziendale che imprenditoriale. Già attualmente, in Olanda 810mila posti di lavoro sono nell’economia circolare.
Tra i profili professionali che serviranno ci sono senza dubbio i design thinker: la capacità di valutare i collegamenti e le interazioni tra le imprese, o tra imprese e governo, tra imprese e consumatori, sarà fondamentale.
Esistono poi una serie di professioni tradizionali come il designer di prodotto, piuttosto che di impianti di industriali, l’ingegnere, l’archiettetto, ecc che dovranno incorporare i principi della circular economy; altrettanto fondamentali saranno le competenze digitali, ma anche le competenze tecnologiche in senso più ampio come la meccanica, la conoscenza dei materiali e dei loro comportamenti, lo studio di nuovi materiali e di riciclo degli stessi. La chimica sarà molto importante.
Esistono già diverse università anche italiane che dedicano corsi di studio o master alla circular economy, per esempio l’Università degli Studi Milano-Bicocca ha da questo gennaio attivato il “Master in Bioeconomy in the Circular Economy (BIOCIRCE)”, che sarà attivo anche alla Università degli Studi di Napoli “Federico II”, Università degli Studi di Torino e Università degli Studi di Bologna.