Diventare imprenditori, fondare una startup, coltivare relazioni di valore, fare innovazione continua. Tutti concetti che generano oggi una certa attrazione e un certo fascino, ma cosa comporta mollare tutto, mettere in discussione una carriera avviata da anni, per buttarsi a capofitto in un progetto da creare da zero?
Ce lo ha raccontato Benedetto Buono, che è oggi Founding Partner di Buono & Partners, una boutique di consulenza strategica, ma nel suo percorso professionale è stato anche tante altre cose.
Tre aggettivi per definire la tua carriera professionale…
«Credo che gli aggettivi più adatti per descrivere la mia carriera professionale siano fortunata, curiosa e parallela».
Ma partiamo dell’inizio.
«Cominciamo con fortunata. Sono consapevole di aver avuto grandi opportunità sin dalla mia formazione universitaria. Dopo aver studiato economia e management alla LUISS, sono entrato nel mondo della consulenza strategica che, insieme alle banche d’affari, era un po’ il mio obiettivo, un ambiente che mi attirava tanto. Ho cominciato in Accenture per poi passare in Leonardo (precedentemente Finmeccanica, dove mi sono occupato di strategie interne per alcuni anni e, successivamente, di investor relations.
Mi sono poi spostato nel settore del financial services, in SACE, lavorando nell’ambito della corporate strategy, dell’innovazione e del marketing. Questi passaggi sono stati per me fondamentali, perché mi hanno permesso di acquisire esperienza e di esplorare diversi aspetti del mondo aziendale. Ho potuto vedere da vicino come si svolge la vita all’interno di una grande organizzazione sotto tanti punti di vista, dagli apicali agli aspetti più operativi.
Ma passiamo al secondo aggettivo: curiosa. Ho sempre ritenuto che la curiosità sia un elemento imprescindibile, anche nel mondo professionale. Dal mio punto di vista, una carriera (e, in generale, una qualsiasi persona) non può non essere curiosa, soprattutto in un mondo iper-complesso, sfaccettato e in continua evoluzione come quello attuale. Penso che ogni professionista, in qualsiasi ambito o settore, debba “alzare la testa e guardare la “big picture”, come dicono gli americani, per cogliere tutto quello che succede intorno e non lasciarsi scappare le nuove opportunità. La curiosità è la chiave per aprire la mente e rimanere aggiornati.
Venendo all’ultimo aggettivo, parallela, posso dire che, oltre al mondo corporate, ho sempre cercato di dedicarmi contemporaneamente ad altri progetti, i cosiddetti side projects. Credo molto nella diversificazione del lavoro ed è per questo che mi piace consigliarlo ai ragazzi e alle ragazze che si accingono a entrare nel mondo professionale. È un modo per alimentare la curiosità, sperimentare nuove modalità di lavoro e confrontarsi con team diversificati.
Ho frequentato club e associazioni, durante l’università e dopo. Inoltre, mi sono dedicato allo startupping, partecipando attivamente a diverse attività di cofounding, ad esempio. Questo mi ha permesso di conoscere persone provenienti da settori diversi, al di fuori del mondo dei big name, e mi ha dato quindi l’opportunità di confrontarmi con realtà che altrimenti non avrei mai incontrato. Questa esperienza ha rafforzato la mia passione per l’imprenditoria, un mondo in cui sono approdato dopo le grandi corporate».
In una delle tue 7 vite hai lanciato una startup tutta tua: cosa comporta mettere in discussione la propria carriera e fondare una società?
«Si suol dire che per fare un passo avanti devi perdere per un momento l’equilibrio e quell’equilibrio lo si perde dal punto di vita personale quando ci si mette in gioco. Penso che tutti noi – e per fortuna, aggiungerei – abbiamo dei sogni nel cassetto. La differenza avviene quando si decide di aprirli, perché il mondo è pieno di sogni nel cassetto, ma bisogna avere il coraggio di tirarli fuori e renderli concreti.
Dal punto di vista professionale si tratta di un grande salto, perché passare dal lavorare in una grande corporate, qualsiasi sia il settore di riferimento, al fare imprenditoria in un Paese come l’Italia non è così semplice. È uno sport “estremo”; ma posso dire che, passata quella vertigine iniziale, il percorso da seguire diventa sempre più chiaro e si cominciano a intravedere le opportunità che si possono cogliere da un’esperienza simile».
Come si diventa imprenditori?
Sarebbe forse più facile se ci fosse una ricetta da seguire, ma la verità è che non esiste un percorso standard.
«Se ci pensiamo, le grandi scuole di management e di business insegnano a fare il manager, non l’imprenditore. Lo spirito imprenditoriale lo si deve avere un po’ nel DNA, ma è anche vero che ci si può lavorare.
Tradizionalmente l’imprenditore è una professione che ha a che fare con la propensione al rischio perché, se il manager ha il compito di minimizzare i rischi, l’imprenditore dovrebbe andare verso il rischio. Penso anche che, senza una preparazione adeguata e senza certe esperienze è molto più facile “schiantarsi” con il rischio; mentre provare a portare un mindset più cautelativo, più ragionato, più calcolato anche nel mondo imprenditoriale possa essere salvifico.
Allo stesso tempo, credo che traslare determinate pratiche tipiche del mondo imprenditoriale in un contesto aziendale possa essere altrettanto importante, per non restare indietro rispetto alla competizione globale, per non perdersi trend e per provare a osare e continuare a innovare. Sono convinto che gli imprenditori hanno tanto da imparare dai manager e viceversa».
Come trasformare un’idea in una startup o, comunque, in un’impresa?
«Dal mio punto di vista la risposta è molto semplice: poca improvvisazione, tanta preparazione e tanta struttura. È fondamentale capire che oggi il problema non risiede nel capitale finanziario perché la liquidità abbonda e, con l’approccio giusto e una proposta di valore, si riesce a rinvenire in qualche modo. Allo stesso modo, anche il capitale tecnologico non rappresenta una barriera alla creazione di una startup. Con l’evoluzione tecnologica imperante e inarrestabile a cui stiamo assistendo, la tecnologia è diventata una commodity e lo sarà sempre più: è accessibile a tutti, a costi molto vicini allo zero, che tenderanno ad abbattersi nel tempo.
Non è, quindi, nell’aspetto tecnologico che risiede il vantaggio competitivo; quello che fa la differenza e quello che serve davvero è trovare le persone giuste, ovvero il capitale relazionale. Come ho scritto nel mio ultimo libro per Egea, Innovationship. L’innovazione guidata dal capitale relazionale – co-firmato con Federico Frattini –, sono proprio le persone il vero valore da ricercare.
Se “sbagli” i co-founder o le persone con cui attraversi e interpreti l’iniziativa, ci sono grandi probabilità di fallire. E ricordiamoci che in un Paese come il nostro non si tende a considerare il fallimento nell’accezione più positiva, come magari può accadere in altri contesti economici e finanziari più sviluppati come, ad esempio, gli Stati Uniti. Sono convinto che sono le persone l’ingrediente fondamentale».
Quanto è importante oggi sviluppare la capacità di saper fare networking?
«Tutto nasce dalle relazioni, siano esse interne o esterne all’organizzazione. Dal punto di vista interno, il nostro personal branding, la nostra brand reputation e il nostro trust nei confronti dei colleghi con cui lavoriamo aumentano se ci relazioniamo con cura e costruiamo rapporti di valore basati su affidabilità e sul fare, ad esempio, ciò che promettiamo. E questo è ancora più vero in un contesto esterno a quello aziendale.
Si suol dire che il successo si costruisce “fuori dalle otto ore di ufficio”: è nel mondo esterno che si trovano le grandi opportunità. Soprattutto da una certa seniority in su, le opportunità di carriera non si trovano su LinkedIn, su bacheche di annunci o su piattaforme di head hunting, ma nascono dal dialogo con la rete.
Pensiamo anche alle opportunità di business per chi fa startupping: le partnership con clienti o fornitori, ma anche le persone con cui lavorare, si trovano soltanto costruendo e mantenendo un network che, a sua volta, assolve ad almeno a due funzioni in un percorso professionale di carriera: le persone messe insieme fungono da rete pronta ad intervenire quando qualcosa va per il verso sbagliato; allo stesso tempo sono pronte a celebrare i successi e diffonderli, al fine di consolidare l’awareness sul mercato.
Il capitale relazionale è oggi centrale per tutte le strategie innovative delle organizzazioni di qualsiasi dimensione: dalle grandi aziende allo startupping. Ma è un processo che richiede tempo e impegno costante nel nutrire le relazioni che sono state create. Ecco perché nel libro, io e Federico (Frattini, ndr) abbiamo concettualizzato la figura del Chief Networking Officer che, dal nostro punto di vista, potrebbe essere utile nelle organizzazioni di qualsiasi natura, proprio per presidiare l’utilizzo del capitale relazionale e generarne valore».
Un aspetto fondamentale è capire quando cominciare a costruire questa rete di contatti.
«Sembra paradossale, ma il network di valore si costruisce quando non se ne ha bisogno, ovvero quando “le cose vanno bene”. Bisogna partire da subito ad affrontare in maniera strategica la gestione delle relazioni, perché altrimenti quando serve sarà troppo tardi. L’università è un bacino immenso di relazioni, peccato che spesso in quell’età magari manchi la contezza del valore che possano generare anche in futuro.
Non si tratta di favoritismo, ma di conoscenza approfondita delle persone che non si può maturare in altri modi, perché è stata costruita in un momento in cui non c’erano altri interessi in gioco, ma c’era la spontaneità di stare insieme grazie a un allineamento e condivisione di vedute, valori e sogni. Le persone con cui veniamo in contatto dovremmo approcciarle ponendoci sempre in modalità di ascolto, dando prima che chiedendo, e considerandole delle spugne con una predisposizione continua all’apprendimento».
Quali sono le soft skill oggi fondamentali nel contesto lavorativo?
«A parte il networking, che tra l’altro è definita “la regina delle power skill”, – ovvero quelle competenze trasversali focalizzate sui rapporti interpersonali – reputo fondamentale la resilienza, che consiste nello sviluppare la capacità di adattarsi alle sfide quotidiane che tutti affrontiamo.
C’è poi un’altra skill cruciale, l’ascolto proattivo: nelle conversazioni guida chi fa le giuste domande, non chi parla di più. Non a caso, secondo diverse ricerche, tra cui quelle del World Economic Forum o di McKinsey, la capacità di ascolto è una delle cinque competenze principali richieste ai leader contemporanei, insieme all’empatia che, a sua volta, richiede l’utilizzo dell’intelligenza emotiva.
Infine, la multipotenzialità, una soft skill molto recente che si è cominciata a mettere a fuoco a metà degli anni ’70, che implica coltivare un interesse verso ambiti molto diversi tra loro e riuscire a specializzarsi in molti di essi. Con l’EggupLab, centro di ricerca interna di EggUp – la prima startup che ho co-fondato nel 2012 e che oggi appartiene a Zucchetti – è stata messa a fuoco la multipotenzialità e coinvolgendo diverse università italiane e internazionali come Bocconi, Lumsa, Roma Tre, Luiss e John Cabot si è arrivato a definire il primo assesment scientifico per valutare la multipotenzialità degli individui e oggettivare questa competenza».
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