La crisi del 2008 ha portato gravi conseguenze sul tasso occupazionali in tutta Europa e l’Italia forse ha sofferto ancora di più la congiuntura economica. In particolare i problemi si sono sentiti nella disoccupazione giovanile, che a Marzo 2016 ha raggiunto il livello record del 39,3% secondo le stime Istat.
Ad aggravare questi dati, uno studio dell’istituto Eurostat che ha valutato le percentuali di occupazione dei giovani laureati italiani con risultati poco incoraggianti: solo il 52,9% dei laureati risulta occupato a tre anni dal conseguimento del titolo, mentre per chi si ferma al diploma il tasso di occupazione scende al 30,5%.
Quello che balza all’occhio da questi dati è come una laurea migliori sì le possibilità di trovare un’occupazione, ma comunque non garantisce affatto una certezza lavorativa. Questo non accade nel resto d’Europa invece, dove in media l’80,2% dei laureati è occupato dopo 3 anni dall’ottenimento del titolo.
Le ragioni per questi numeri sono sicuramente molte, a partire dalla forte crisi fino all’allungamento della vita lavorativa prevista dalla riforma pensionistica.
Quello che però sconcerta di più è lo scarso valore attribuito alla laurea: come è possibile che una persona dopo 5 anni di studio non venga considerato valido per un lavoro? Che colpe ha, se ne ha, l’Università in questi dati sconcertanti?
L’Università italiana ha un’impronta molto teorica e methodology-driven: questo significa che nei nostri corsi gli studenti imparano svariati strumenti o tecniche da utilizzare, ma raramente hanno la possibilità di applicarli in casi reali.
Questa impostazione garantisce una grande flessibilità negli studenti, ma di contro comporta un inserimento nel mondo lavorativo rallentato: tutti sappiamo quanto sia complicato passare dalla teoria alla pratica!
Questo può portare le aziende a favorire figure professionali che garantiscano ritorni più immediati rispetto ad un neo-laureato, figura che in un orizzonte più lungo potrebbe invece dare risultati migliori.
Ovviamente scelte del genere dimostrano una parziale miopia nelle politiche di assunzione, ma in particolare in tempi di crisi i risultati di breve termine divento di fondamentale importanza, anche a costo di perdere alcune opportunità future.
Cosa può quindi fare l’Università per invertire questo trend?
Di sicuro può e deve cercare di inserire nei percorsi formativi un maggior numero di attività pratiche come i tirocini obbligatori, supportando però lo studente nella ricerca e valutando l’effettiva validità del progetto aziendale.
D’altra parte, però, è necessario anche un cambio nel metodo di erogazione degli insegnamenti: non si può più avere una maggioranza di corsi in cui ciò che è richiesto è di imparare la base teorica di possibili strumenti, ma è ormai necessaria un’impronta molto più pratica e che abitui gli studenti ad affrontare problemi simili a quelli lavorativi.
Questo inoltre va di pari passo con l’esplosione che Internet ha avuto negli ultimi anni: oggigiorno in rete si ha accesso a moltissimo sapere che fino a qualche anno fa era conosciuto solo da chi aveva studiato. Questa democratizzazione del sapere sta portando ad un radicale cambiamento che la nostra università non sta cogliendo: bisogna insegnare a selezionare ed usare gli strumenti esatti a seconda delle situazioni, non basta più insegnare le parti teoriche di questi.
Ovviamente non bisogna dimenticare che capire una cosa aiuta anche ad utilizzarla meglio, così come non va trascurato l’allenamento della memoria. È però necessario che la teoria venga integrata da corsi universitari estremamente pratici, dove gli studenti lavorano su problematiche che possono essere incontrate nel mondo del lavoro e dove non è presente un esame finale per valutare le conoscenze, ma è piuttosto richiesto uno o più progetti con soluzioni alle problematiche affrontate durante l’intero corso.
Questi suggerimenti si possono applicare in alcuni corsi di studi più che in altri ovviamente, però in tanti altri stati un approccio molto pratico in università porta ottimi risultati e probabilmente lascia anche gli studenti meno stressati.
Insomma, una riforma semplice e a basso costo, che può aiutare tutto il paese sveltendo l’inserimento nel mondo del lavoro per i giovani.
Contributor: Paolo Citterio
Classe 1992, trentino ma per esigenze di studio a Milano, Paolo Citterio è Presidente di Jemp, la junior enterprise del Politecnico di Milano.
Sta conseguendo la laurea magistrale in ingegneria gestionale.
– Paolo ha partecipato alla nostra gara “Diventa giornalista 2.0” e il suo articolo è stato selezionato per la pubblicazione.