Ricercare condizioni di benessere, sia fisico che mentale, è da sempre stata una propensione naturale dell’uomo e lo è ancora di più oggi soprattutto per le nuove generazioni che hanno ampie vedute, grandi aspirazioni e non vogliono dover raggiungere compromessi, tanto più quando si parla dell’ambito lavorativo. Ed è in questo contesto che, nato in America, sta prendendo piede anche in Italia il fenomeno del job hopping, ovvero la tendenza a cambiare lavoro circa ogni due anni.
E non importa se questo implica dover cercare nuove realtà, sostenere molteplici colloqui e contemplare una buona dose di rischio e incertezza. Oggi i giovani sono disposti a rinunciare a tanti aspetti che fino a qualche generazione prima erano considerati indiscutibili per rimettersi in gioco una volta in più, ripartire da zero se il prezzo da pagare promette in cambio migliori opportunità di successo e di soddisfazione personale.
Il lavoro della vita, così come il vecchio e tanto ambito “posto fisso”, sono situazioni che non appartengono più alle nuove generazioni che hanno completamente modificato l’approccio al mondo del lavoro: la fedeltà all’azienda passa in secondo piano e la flessibilità, così come gli aspetti economici e relazionali, acquisiscono più importanza.
Che cos’è il job hopping
Nato in America, ma sempre più diffuso in Italia, il job hopping – letteralmente “saltare da un lavoro all’altro” – è la tendenza a cambiare occupazione molto spesso (all’incirca ogni 2 anni, ndr.) per avere stipendi più alti, ma soprattutto per ridurre lo stress, e ritrovare entusiasmo e nuova linfa nel quotidiano. Non si tratta di instabilità, quanto piuttosto della volontà di ricercare ambienti sempre più stimolanti, innovativi e che rispondano a pieno alle nuove necessità ed esigenze dei rappresentanti della nuova forza lavoro attuale. Secondo la ricerca condotta nel 2021 da Deloitte, A call for accountability and action, in America su 10.455 giovani della Generazione Y – ovvero i nati fra il 1983 e il 1994 – il 43% è propenso a cambiare lavoro entro due anni dall’assunzione, contro un 28% che vuole restare nella stessa azienda oltre i cinque anni dal primo giorno di lavoro.
Tuttavia, se negli Stati Uniti il job hopping è un fenomeno normalizzato, lo stesso non si può ancora affermare per il nostro Paese, in cui i tassi di disoccupazione restano molto alti soprattutto tra i giovani e dunque la pratica di abbandonare il posto “sicuro” per dirigersi verso l’ignoto non viene facilmente accettata ma piuttosto considerata come un segno di irresponsabilità.
Cosa spinge i giovani a fare job hopping
In un sondaggio realizzato da Gallup che ha coinvolto ben 13.085 impiegati statunitensi si è cercato di capire che cosa porta le persone a cercare o accettare una nuova offerta lavorativa. È emerso che la retribuzione e le questioni legate al benessere sono entrambe sempre più rilevanti, a tal punto da conquistare il primo e il secondo posto tra i fattori che portano a lavorare altrove.
Il 64% del campione preferisce, infatti, cambiare lavoro piuttosto che aspettare un aumento o un bonus dalla sua azienda; inoltre, cambiare occupazione e interrompere la routine permette al 61% del cluster di essere più felice, più sano e avere più successo. Ancora, il 58% degli impiegati considera il cambiare lavoro come un’opportunità per dedicarsi a ciò che sa fare meglio. Il non poter sfruttare il proprio potenziale, i punti di forza e mettere in pratica ciò per cui si ha studiato, oltre a sollevare un certo grado di frustrazione, rappresenta un motivo in più per cercare delle realtà che li rappresentino meglio.
Il job hopping fa bene al CV?
Tuttavia, in sottofondo rimane sempre un interrogativo: avere brevi esperienze sul proprio curriculum rende più difficile trovare un altro lavoro? Sembra non essere affatto così: fino a qualche anno fa la fedeltà all’azienda era considerato un valore imprescindibile e si guardava con diffidenza chi decideva di cambiare lavoro con una certa regolarità, oggi queste regole non valgono più.
Ad ogni modo un consiglio in fase di colloquio è quello di presentare i lavori precedenti non come compartimenti stagni, ma come step di un unico percorso coerente finalizzato a raggiungere obiettivi professionali chiari. Inoltre sarà utile dimostrare come ogni esperienza abbia contribuito a sviluppare competenze utili al lavoro per il quale ci si sta candidando. Questo tipo di approccio servirà a focalizzare l’attenzione del recruiter sugli aspetti positivi del job hopping e non su quelli eventualmente negativi.
Vantaggi e svantaggi del job hopping, per lavoratori e aziende
Il job hopping presenta vantaggi e svantaggi sia per i lavoratori che per le aziende. Proviamo a sintetizzare qui i principali.
Per quanto riguarda i lavoratori il job hopping, come abbiamo già detto, può contribuire a raggiungere livelli di soddisfazione economica e professionale più alti, acquisire nuove competenze, ampliare il proprio network di conoscenze, riaccendere la motivazione. Dall’altro lato, l’instabilità legata al cambiare spesso lavoro può portare a stati di stress elevati, anche costruire una carriera solida potrebbe essere più complesso per via del pregiudizio che ancora molte realtà mostrano nei confronti di chi cambia lavoro spesso, così come l’accesso a programmi di formazione dalle tempistiche più lunghe potrebbe essere precluso.
Per quanto invece riguarda le aziende, l’aspetto positivo del job hopping è legato alla possibilità di accogliere nel proprio organico dipendenti con esperienze diverse che possono portare nuove idee e competenze, all’ampliamento della propria rete di contatti, alla maggiore conoscenza del settore aprendo le porte a dipendente provenienti magari da aziende competitor. Di contro, naturalmente, la pratica del job hopping causa alle aziende un aumento dei costi del turnover, la perdita di informazioni e competenze difficili da sostituire, interruzioni all’attività lavorativa.
Come gestire il job hopping dei dipendenti
Il job hopping impegna le Direzioni HR nel trovare il giusto equilibrio tra le esigenze dell’azienda e quelle dei suoi dipendenti.
Diverse le azioni che possono essere messe in campo per offrire opportunità di crescita ai propri lavoratori individuando nuovi elementi motivazionali al fine di evitarne la fuga e garantire stabilità all’interno dell’organico.
Prima di tutto, la parola d’ordine è “comunicare”. Comunicare coi dipendenti, conoscere le loro aspirazioni riguardo al futuro e prospettare in maniera chiara e onesta percorsi di carriera possibili.
Offrire percorsi di formazione per consentire ai dipendenti di aggiornare le proprie competenze e mantenere sempre un alto livello di impiegabilità contribuendo ad accrescere il loro livello di soddisfazione e fortificando così il legame con l’azienda.
Affiancare alla valutazione annuale anche il monitoraggio costante delle prestazioni e una modalità di feedback continuo che dia l’occasione di gratificare il lavoratore con una certa regolarità riconoscendone il valore e supportandolo nelle sfide più complesse durante tutta la sua attività.
Oltre ai programmi di formazione e possibilità di sviluppo professionale, offrire benefit come piani pensionistici, prestiti agevolati, buoni pasto, ma anche sviluppare iniziative per il benessere e il work-life balance.
Non meno importante, gestire con cura i colloqui consentendo tanto ai recruiter quanto al candidato, di capire le varie prospettive, comprendere i punti di forza e anticipare eventuali conflitti che potrebbero nascere nei gruppo di lavoro o col capo.
Come extrema ratio esiste sempre la possibilità di fare una controfferta. Tuttavia questa pratica, sebbene riesca ancora a trattenere lavoratori in fuga, è sempre meno apprezzata perché viene percepita come un qualcosa che l’azienda avrebbe potuto fare prima, ma che il più delle volte non ha fatto per risparmiare (sulla pelle della risorsa).
Come sapere quando è il momento di cambiare lavoro
Ecco una serie di domande che ognuno dovrebbe porsi e a cui dovrebbe riuscire a trovare risposta prima di prendere la decisione definitiva di fare job hopping.
- Quali sono gli elementi che mi soddisfano o scontentano nel contesto della mia professione?
- Quale disegno/ciclicità intuisco nel mio percorso lavorativo rispetto all’esperienza maturata negli ultimi anni?
- Quali sono i miei obiettivi?
- Quali sono gli elementi che mi condizionano?
- Quali sono le mie attitudini personali (senza farsi condizionare da schemi e convenzioni)?
- Qual è il posto di cui ho veramente bisogno?
- Vale davvero la pena cercarlo?
- Qual è il punto di equilibrio fra obbligo (le incombenze della vita) e desiderio (quel che vorrei)?