“Il tuo valore non è stabilito dai tuoi risultati”, esordisce così l’utente di TikTok che in poco tempo dà vita al fenomeno che disegna un nuovo approccio al lavoro secondo cui le attività da svolgere in azienda rimangono una priorità per i dipendenti, ma solo quelle che rientrano nelle ore stabilite dal contratto
L’ingresso nel mondo del lavoro dovrebbe segnare una nuova tappa della vita degli studenti che hanno passato gli ultimi anni sui libri, sostenendo esami e provando a immaginarsi un futuro. Ma cosa succede quando un ragazzo di 24 anni pubblica un video su TikTok in cui si dichiara demotivato, stanco e senza stimoli sul lavoro e dà vita al fenomeno che in pochissimo tempo sveglia l’attenzione di tutto il web? Parliamo del Quiet Quitting, trend nato negli Stati Uniti per poi raggiungere anche l’Italia, totalizzando 3,5 milioni di visualizzazioni e quasi 500mila like.
Proprio così. Non una challenge, né un balletto o un video lip sync, questa volta a diventare virale sulla piattaforma social a oggi più amata dagli utenti di tutte le età è un fenomeno che mette sotto i riflettori i dipendenti e che (sembra paradossale) vede nella Generazione Z la più grande promotrice del Quiet Quitting – letteralmente “abbandono silenzioso” -.
Cosa significa Quiet Quitting
Una traduzione letterale potrebbe fornire un significato ambiguo e per certi versi fuorviante del termine, considerandolo come la volontà delle persone di svolgere il minore lavoro possibile o, addirittura, di licenziarsi (come molti americani stessi hanno pensato quando hanno sentito per la prima volta la buzzword).
Ma non è così; si tratta piuttosto di un nuovo modo di concepire il lavoro in cui le attività da svolgere in azienda rimangono una priorità per i dipendenti, ma solo quelle che rientrano nelle ore lavorative canoniche stabilite dal contratto.
A parlare di Quiet Quitting per la prima volta è stato l’utente Zaid Khan (Zaidleppelin su TikTok), ingegnere di 24 anni che in un video di soli diciassette secondi racconta di aver recentemente imparato il termine quiet quitting, che non significa lasciare il proprio lavoro ma evitare di fare più di quanto richiesto.
“Si continua a svolgere i propri compiti, ma non si aderisce più alla cultura della competizione verso se stessi e gli altri, secondo la quale il lavoro deve essere la nostra vita“, dice Zaid. E conclude affermando: “Il tuo valore non è stabilito dai tuoi risultati”. Insomma, quale slogan migliore per rappresentare una generazione che non scende a compromessi quando si tratta di dedicare la giusta attenzione e il giusto tempo alla vita privata?
@zaidleppelin On quiet quitting #workreform ♬ original sound – ruby
La Gen Z si fa promotrice del Quiet Quitting
Sono, infatti, soprattutto i giovani a non essere più disposti a fermarsi in ufficio o tenere il pc acceso per fare straordinari (anche retribuiti), portare avanti progetti durante i weekend o, più in generale, a farsi carico di responsabilità che vanno oltre le attività che competono loro. Dimostrare a datori di lavoro di portare valore aggiunto all’azienda e di contribuire a incrementare la qualità dei servizi offerti non è più così importante.
Una conferma in più che per gli appartenenti alla Generazione Z – noti anche come Zoomers – il denaro potrebbe non essere sempre l’aspetto più importante sul lavoro o che, quanto meno, non sarebbe paragonabile alla possibilità di avere più tempo a disposizione da dedicare a sé stessi.
«Questa giovane categoria di lavoratori esige che i datori di lavoro si occupino di loro come persone nel loro insieme – ha dichiarato Linda Jingfang Cai, vicepresidente per lo sviluppo dei talenti di LinkedIn -. E la capacità di comprendere il loro percorso di carriera vale più di una busta paga».
Siamo ben lontani dal mito tutto americano dell’hustle culture, ovvero del dedicare la vita intera al lavoro per “fare sempre di più”.
E se la Gen Z non fosse l’unica a pensarla in questo modo?
Ma probabilmente la Generazione Z si è semplicemente fatta promotrice e portavoce di un malumore che in realtà era già diffuso da anni tra i lavoratori di tutte le età e che fino a questo momento si era nascosto dietro a fenomeni quali la Great Resignation, il burnout o il technostress e che ha portato a considerare il lavoro (e di conseguenza i manager, i colleghi e l’ufficio stesso) con cinismo e apatia. «Quella che prima era una sfida passiva e aggressiva all’equilibrio tra lavoro e vita privata ora sta diventando una richiesta molto diretta», ha commentato Jaya Dass, Direttore Generale di Randstad per Singapore e Malesia.